Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos

“Kinnaur Himalaya” è un progetto di ampio respiro, con finalità giornalistiche e divulgative. L’ambientazione è in contesto tribale, in Kinnaur, Himalaya indiano, all’interno di una comunità poco nota, ma ugualmente minacciata nella propria integrità dai cambiamenti climatici, dalle migrazioni, dalla militarizzazione seguita alla crisi indo-cinese ai confini, dalla contaminazione culturale e, allo stesso modo, dalle seduzioni di una delle economie più vivaci del pianeta.

Qui ho svolto attività di ricerca nel 2003 e nel 2005, con più di tre mesi di permanenza sul campo. L’obbiettivo della terza  e della quarta fase, nel 2018 e 2019, è stato cogliere il polso di questa complessa civiltà, capace di assorbire pratiche sciamaniche e culti animisti legati alle forze ancestrali della natura, ma oggi di fronte a uno spartiacque epocale, il cui centro prende nomi quali modernità, sviluppo, globalizzazione.

Nel corso di altri tre mesi e mezzo sul campo sono stati documentati i cambiamenti subiti dalla tradizione Kinnauri in tre lustri, a partire dalle dinamiche economiche, per arrivare alle pratiche diffuse sin dall’antichità nella valle del fiume Sutlej, il tutto osservando «da dentro» le dinamiche di villaggio.

 

 

Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos

“Kinnaur Himalaya” è un progetto di ampio respiro, con finalità giornalistiche e divulgative. L’ambientazione è in contesto tribale, in Kinnaur, Himalaya indiano, all’interno di una comunità poco nota, ma ugualmente minacciata nella propria integrità dai cambiamenti climatici, dalle migrazioni, dalla militarizzazione seguita alla crisi indo-cinese ai confini, dalla contaminazione culturale e, allo stesso modo, dalle seduzioni di una delle economie più vivaci del pianeta.

Qui ho svolto attività di ricerca nel 2003 e nel 2005, con più di tre mesi di permanenza sul campo. L’obbiettivo della terza  e della quarta fase, nel 2018 e 2019, è stato cogliere il polso di questa complessa civiltà, capace di assorbire pratiche sciamaniche e culti animisti legati alle forze ancestrali della natura, ma oggi di fronte a uno spartiacque epocale, il cui centro prende nomi quali modernità, sviluppo, globalizzazione.

Nel corso di altri tre mesi e mezzo sul campo sono stati documentati i cambiamenti subiti dalla tradizione Kinnauri in tre lustri, a partire dalle dinamiche economiche, per arrivare alle pratiche diffuse sin dall’antichità nella valle del fiume Sutlej, il tutto osservando «da dentro» le dinamiche di villaggio.

 

 

Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos

“Kinnaur Himalaya” è un progetto di ampio respiro, con finalità giornalistiche e divulgative. L’ambientazione è in contesto tribale, in Kinnaur, Himalaya indiano, all’interno di una comunità poco nota, ma ugualmente minacciata nella propria integrità dai cambiamenti climatici, dalle migrazioni, dalla militarizzazione seguita alla crisi indo-cinese ai confini, dalla contaminazione culturale e, allo stesso modo, dalle seduzioni di una delle economie più vivaci del pianeta.

Qui ho svolto attività di ricerca nel 2003 e nel 2005, con più di tre mesi di permanenza sul campo. L’obbiettivo della terza  e della quarta fase, nel 2018 e 2019, è stato cogliere il polso di questa complessa civiltà, capace di assorbire pratiche sciamaniche e culti animisti legati alle forze ancestrali della natura, ma oggi di fronte a uno spartiacque epocale, il cui centro prende nomi quali modernità, sviluppo, globalizzazione.

Nel corso di altri tre mesi e mezzo sul campo sono stati documentati i cambiamenti subiti dalla tradizione Kinnauri in tre lustri, a partire dalle dinamiche economiche, per arrivare alle pratiche diffuse sin dall’antichità nella valle del fiume Sutlej, il tutto osservando «da dentro» le dinamiche di villaggio.

 

 

Sedici anni dopo, al confine tra India e Tibet

Nello stato himalayano dell’Himachal Pradesh, nell’India del nord, si trova il distretto tribale del Kinnaur. Un territorio selvaggio, per molti aspetti inaccessibile e ancora oggi studiato di rado. La popolazione locale, i Kinnaura, vanta origini antiche, legate alla tradizione indiana, tibetana e pre-buddhista.

Il culto kinnaura, di tipo oracolare, si focalizza attorno al grokch, figura religiosa di primaria importanza, scelta tramite rapimento iniziatico e in grado di entrare in trance ed essere posseduta dalla divinità, eseguendo esorcismi e guarigioni.

L’idea stessa del cosmo, per i Kinnaura, sembra concepire la fusione fra la realtà oggettiva della vita quotidiana e un mondo sottile, frequentato da dei, entità soprannaturali e demoni che popolano l’ambiente naturale. In questo contesto, il mantenimento del ṛta (dal sanscrito «ordine cosmico») spetta ai grokch, funzione assolta unendosi alla propria divinità di riferimento tramite possessione ed eseguendo rituali di esorcismo e pratiche di tipo magico.

Oggi, questa preziosa tradizione rischia l’estinzione per effetto dei cambiamenti sociali in atto: migrazioni interne, cambiamenti climatici, imposizioni di nuovi modelli economici e spinte nazionalistiche. In questo contesto sono stati affrontati i cambiamenti subiti dalle economie locali, ponendo l’attenzione sulla diffusione della monocoltura delle mele e sulle migrazioni in arrivo dal resto del Subcontinente. Quale l’impatto? Cosa resta delle antiche rotte carovaniere da e verso l’antico regno di Zhang Zhung? Per secoli, lungo queste piste si sono plasmate le tradizioni religiose oggi praticate nell’area, transitate in egual modo a dorso di yak, da nord a sud e viceversa, sui passi d’alta quota. Il progetto Kinnaur Himalaya si è posto l’obbiettivo di decifrare i cambiamenti avvenuti in Kinnaur, imposti dallo sviluppo dell’India odierna e dall’impatto della crescente pressione da parte di quella che potremmo definire “cultura hindu” in un contesto sociale rimasto a lungo isolato e indipendente.

L’Himalaya è un fiore di loto

«Conoscere l’Himalaya significa conoscere l’Asia», suggeriva un ventiquattrenne giornalista dell’Hindustan Times, arrivato da New Delhi per «dare uno sguardo» alle grandi dighe in costruzione in Kinnaur. Probabilmente è vero, l’Himalaya è lo specchio dell’Asia, e sin dall’antichità la più grande catena montuosa del Pianeta rappresenta il centro ideale attorno al quale si estende il mondo degli uomini.

La forza delle immagini e il poco tempo a disposizione di chi sceglie di viaggiare in Himalaya, spesso limitano la capacità di comprendere il valore simbolico della più grande catena montuosa del Pianeta. In realtà, per gran parte gli abitanti delle montagne asiatiche, la concezione dell’ambiente naturale va al di là delle apparenze. Le foreste, le montagne, l’incrocio dei sentieri o ancora i pascoli in quota custodiscono una realtà segreta, l’aranya, ovvero la “selva” in cui vivono spiriti, fate, demoni e aspiranti déi.

Per cogliere la simbologia dell’Himalaya è opportuno dare uno sguardo ai testi antichi. Da migliaia d’anni, per le tradizioni panindiane (hinduismo, buddhismo e jainismo) l’universo è raffigurato come un enorme fiore di loto a quattro petali, al cui centro c’è la Catena himalayana, vero cuore pulsante dai cui ghiacciai hanno origine i più grandi fiumi asiatici. Qui si trova il mondo umano, noto come āryavarta e si ritiene sia abitato dagli avi. È questo il subcontinente indiano, considerato la propaggine estrema di un più vasto continente detto Jambudvīpa, “albero di melarosa” collocato a sud del monte Meru e identificato nel Kāilash tibetano.

Siamo al centro dell’universo, dove cielo, terra e inferi si incontrano, l’axis mundi che tutto sorregge. Il Meru è l’imponente «montagna d’oro», misura in altezza 84.000 yojana – unità di misura di epoca vedica per cui ciascun yojana equivale a 1,6 chilometri – e 16.000 yojana in profondità. Il Meru si presenta come una montagna rovesciata, da cui l’epiteto di «Calice del seme di loto»: alla base la sua larghezza raggiunge i 16.000 yojana, mentre la vetta è di 32.000 yojana. Sopra il Meru brilla la stella polare, attorno alla quale ruotano tutti gli astri. Sull’altopiano della vetta del Meru si trova la dimora terrena del manifestatore Brahma, attorniato dalle otto divinità guardiane delle otto direzioni cardinali. Alla base si estende invece una massa continentale detta Ilāvṛta-varśa, dalla quale come un loto schiuso si dipartono diversi subcontinenti circondati da un enorme oceano salato. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda all’articolo completo pubblicato su Alpinismi. 

Melocrazia e cambiamento lungo il confine tibetano

L’introduzione di nuovi modelli economici in Kinnaur si riflette nel successo del mercato delle mele. Il cambiamento derivante è stato talmente pervasivo da averci suggerito termini come “melocrazia” o “dittatura delle mele”. Oggi, la produzione di mele è la principale fonte di reddito per gli abitanti del distretto, e la specializzazione in un’unica attività economica ha trasformato profondamente la società Kinnauri. La melocrazia deriva dall’introduzione di nuove specie coltivabili negli anni Settanta, destinate a rendere meno effimere le attività agro-pastorali di sussistenza. I primi tentativi furono concentrati su alcune varietà di cereali, poi si passò alla coltivazione di albicocche, di pere e infine di mele. Il tempo e il gradimento dei mercati hanno fatto prevalere queste ultime.

L’arrivo dei compratori ha aperto gli occhi ai Kinnauri, persuasi dal fatto che coltivare mele paga. Ecco che negli ultimi 30 anni, l’originaria diversificazione delle attività agro-pastorali ha lasciato il posto a questa monocoltura, l’unica capace di garantire profitti reali. Tale scelta non è priva di rischi se si pensa alla natura stessa dell’ambiente himalayano, vulnerabile e particolarmente esposto agli effetti del cambiamento climatico.

«Fino a qualche anno fa non avevamo parassiti, così l’uso di sostanze chimiche era limitato a una o due volte l’anno. Oggi dobbiamo spruzzare anche sei volte in una stagione. In inverno fa meno freddo, e i parassiti sopravvivono facilmente», è il commento avuto da un produttore di mele del Kinnaur. Parte dei suoi meleti sorge dove 20 anni fa pascolavano pecore e capre. Un cambio di destinazione d’uso ormai comune in Kinnaur. Porzioni di boschi primitivi, in quota, sono state rimpiazzate da distese di meli. Lo stesso è accaduto sui terreni originariamente coltivati a cereali e legumi. Estendere i meleti in alto è una precauzione dettata dall’esigenza di compensare il ridimensionamento dovuto alla scarsità d’acqua, atteso per il fondovalle. Salire in quota è anche una speculazione indotta da un mercato ricettivo e apparentemente inesauribile, capace di assorbire quantità enormi di prodotto.

Una società che cambia

In cima alla lista dei cambiamenti innescati dall’economia delle mele, c’è la perdita di interesse per i capisaldi dell’identità Kinnauri, prima di tutto religiosa, adombrati dal fascino dei modelli importati dalle grandi città indiane. Sembra grottesco, ma alle porte del 2020, uno degli argomenti più usati per spiegare i cambiamenti in atto è stato proprio l’infatuazione dei locali per «gli stili di vita delle pianure, considerati più moderni e meno primitivi». Poco conta se l’affermazione di questi «stili di vita» arriva dai televisori e dagli smartphone, piuttosto che da un’esperienza diretta, personale.

Il rosso delle mele si affianca al grigio del cemento e dei mattoni prefabbricati, materiali sostituiti alla pietra naturale e al legno a lungo usati per realizzare gli edifici tradizionali. Per chi vive da queste parti, costruire un albergo in cemento, a quattro piani, nel mezzo dei propri meleti è una dimostrazione del benessere raggiunto, una testimonianza tangibile di un miglioramento di status. In pochi scorgono una minaccia reale in ciò che sta accadendo, altri la considerano lo scotto minimo per un cambiamento storico che porta comunque denaro e amplifica le opportunità.

A guardare con preoccupazione al Kinnaur di oggi sono i più giovani, i “figli delle mele” che, paradossalmente, grazie alla melocrazia sono riusciti a mettere il naso fuori dal distretto e a conseguire un titolo di studio universitario. Persone in grado di avere una visione più ampia della realtà e di scorgere la necessità di preservare l’identità locale, proprio a partire dalle sue radici religiose e architettoniche. Akshai Negi di Roghi traduce bene questa consapevolezza: «Stiamo perdendo la nostra eredità rapidamente. Le aspirazioni delle persone sono cambiate e a rischio ci sono la nostra cultura, l’architettura, le arti antiche e i mestieri». Le considerazioni di Akshai sono sostenute da una formazione in psicologia e dalla sua attenta conoscenza della tradizione Kinnauri. Nel corso dei nostri incontri, per cercare di definire ciò che sta accadendo ha parlato spesso di glamourizzazione. Secondo Akshai, i nuovi ricchi del Kinnaur dispongono di denaro più di quanto riescano ad amministrare, condizione che sembra alimentare una tacita competizione fra loro.

Himalaya, terra di migrazioni

Per costruire un edificio in cemento da cima a fondo basta una stagione. Nulla rispetto alle abitazioni tradizionali, che oltre a costare di più, richiedono almeno tre anni. A primavera, schiere di migranti raggiungono il Kinnaur e gli altri distretti himalayani alla ricerca di lavoro. Qualcuno ha documenti nepalesi, gli altri sono indiani in arrivo dalle zone rurali depresse. Accettano salari bassi, lavorano sodo e sono disposti a turni di 12 ore o più. I muratori stagionali non conoscono i canoni dell’architettura kinnauri, ma sanno perfettamente come si costruiscono gli edifici diffusi nelle torride pianure da cui provengono. Uno strato di cemento, poi mattoni prefabbricati e ancora cemento, un piano dopo l’altro e in pochi mesi, tra fine marzo e ottobre, una protuberanza grigia prende il posto di alberi, rocce e cielo. Edifici essenziali e tecnicamente involuti rispetto alle costruzioni tradizionali, impattanti e privi di qualsiasi accorgimento antisismico.

Ma al di là dei nuovi edifici, i migranti in arrivo in Kinnaur tengono in vita i mestieri del passato, gli unici apparentemente in sintonia con un ambiente fragile come quello himalayano. Sono contadini e pastori, che nell’epoca delle mele trovano spazio là dove nel passato recente gli autoctoni intervenivano in prima persona. Oggi, seguire pecore e capre sui pascoli in quota non interessa più, o comunque rimane un’attività marginale nel tornaconto delle famiglie kinnauri, troppo assorbite dalla melocrazia.

Tra gli ultimi veri pastori himalayani c’è Bakta Badur, migrante nepalese di lungo corso che in Kinnaur lavora da ormai 30 anni. …  Nell’interrato, sotto le assi in legno lisciate dai passaggi, il gregge sembra ancora assopito. All’esterno l’alba si riflette nella brina che circonda il ricovero e dalle fessure tra le pareti, filtra la prima luce. Il tetto piatto lascia passare il fumo della stufa, segno che un’altra giornata sta per iniziare. Un rumore secco di chiavistello anticipa l’apertura della porta, poi, sul pianerottolo in pietra compare un uomo minuto, con i capelli grigi visibili sotto al cappello in lana. Si chiama Bakta Badur ed è un pastore nepalese di 70 anni. Come ogni giorno prepara l’unico pasto fino a sera, a base di riso e legumi. Prima però mette a bollire un intruglio per i cani, fatto con gli avanzi del giorno prima, a cui aggiunge della farina e un po’ di latte.

Attorno al casolare ci sono i khanda, i pascoli che si estendono oltre la foresta, fino a 4.500 metri. Il paesaggio è bucolico: ampie distese d’erba punteggiate da deodara secolari, poi monoliti di granito e vecchi ricoveri affacciati sul monte Kinner Kāilash, la cui cima supera i 6.500 metri. Siamo in Kinnaur, distretto tribale dell’Himachal Pradesh, stato dell’Unione Indiana posto a ridosso del confine tibetano, nel cuore dell’Himalaya. Per sei mesi all’anno, questi pascoli sono il regno di Bakta, giunto 30 anni fa alla ricerca di lavoro e poi rimasto, diventando “il re dei pastori” del Kinnaur. Lo conoscono tutti in zona, Bakta è una sorta di istituzione, un migrante di lungo corso, trattato dai locali come un vero Kinnauri. «Non torno in Nepal da vent’anni. Del resto, non ho una famiglia, solo dei fratelli e alcuni nipoti». Continua a leggere su Alpinismi.