Back to Life in Iraq, arte distruzione e rinascita

Marzo 2017 vs Gennaio 2018.

É possibile resistere allo Stato Islamico con l’arte? La storia di Matti al-Kanon lo dimostra. Pittore e scultore di 73 anni, appartiene alla comunità cristiano-siriaca di Bartella, cittadina situata a 20 chilometri da Mosul, nel Governatorato di Ninive. È fuggito assieme alla famiglia il 6 agosto 2014, poche ore prima che i miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi conquistassero la città includendola nel loro Califfato.
Bartella è stata liberata a febbraio 2017, ponendo fine a un’occupazione durata trenta mesi e consentendo all’artista di ritornare a casa, in quello che resta dell’area urbana semi-distrutta dalla battaglia e per buona parte disabitata. All’interno dell’abitazione spoglia, privata di tutti i mobili e pesantemente danneggiata, sono rimasti i dipinti di al-Kanon. In tutto trentacinque opere che formano il portato di una vita dedicata all’arte.

Oltre alle pubblicazioni seguite al lavoro sul campo, Back to Life in Iraq è anche un’esposizione itinerante che include le opere di Matti al-Kanun, il reportage fotografico, articoli scritti durante il lavoro sul campo e un documentario che ripercorre la vicenda dell’artista iracheno.

Ricucire le opere per resistere alla guerra e tornare alla vita in Iraq

Nell’ammasso di tele sporche sul pavimento ci sono anche tre dipinti a tema cristiano, fatti a brandelli dai pugnali dei jihadisti in nome di un’iconoclastia che, benché non sia specificamente islamica, attribuisce al vandalismo dell’ISIS un carattere specifico. Colpire le minoranze attraverso i loro simboli religiosi, è questo lo scopo dei miliziani, per i quali l’estensione del Califfato deve coincidere con l’eliminazione di qualsiasi elemento alieno alla loro ideologia.

Tra marzo e agosto 2017, Matti al-Kanon decide di rimettere assieme la sua collezione e di portarla a Erbil, dove vive in un campo profughi. All’epoca la Battaglia di Mosul sta per finire, il confine kurdo-iracheno è un non luogo dove il transito di opere e manufatti è estremamente difficile. L’artista però intende provarci, vuole «ricucire quegli squarci come forma di resistenza allo Stato Islamico… come volontà di tornare alla vita malgrado la guerra». Noi siamo con lui e i suoi familiari, per testimoniare il salvataggio dei dipinti.

Dopo alcuni tentativi, al-Kanon riesce a caricare le opere su un furgone e a trasferirle a Erbil. Qui trova un luogo in cui ripararle, usando solo frammenti di tela, dell’acqua e un po’ di colla. Uno dopo l’altro gli squarci, seppure ben visibili, vengono suturati. Un gesto simbolico attraverso il quale Matti al-Kanon testimonia le violenze che la sua terra conosce da molto tempo, dando prova che in Iraq si può tornare a vivere. “Back to Life in Iraq”.

Quei dipinti del maestro cristiano al-Kanun squarciati dall’Isis

«Ci attendono tempi difficili, non sappiamo cosa potrà succedere, abbiamo paura», confidava a fine 2017 Ramiz al-Kanun, 28enne cristiano siriaco fuggito tre anni prima da Bartella, centro posto 24 chilometri a est di Mosul, la seconda città dell’Iraq, antico mosaico di comunità etniche e religiose affacciato sul fiume Tigri, a nord del Paese.

L’abbandono dalla città è coinciso con l’avanzata dei jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi durante la genesi dell’autoproclamato Stato Islamico, che a Mosul ha insediato la sua capitale irachena. Dopo aver preso lo stretto necessario, con 30mila dinari Ramiz e i suoi hanno pagato il prezzo di una corsa in auto verso Kalak.

Succedeva il 6 agosto 2014, giorno in cui i miliziani superarono l’ultima resistenza dei peshmerga curdi, estendendo il loro metodo di governo a Bartella e su gran parte della Piana di Ninive, fino alla catena dei monti Sinjar, nella terra in cui si è consumato il massacro degli yazidi, a ridosso del confine turco-siriano. Per decine di migliaia di cristiani e di shabak sciiti, le principali componenti etniche di Bartella, l’unica soluzione è stata la fuga.

Assieme al giovane Ramiz c’era anche il padre Matti al-Kanun, artista 74enne dallo sguardo vivo, con una predilezione per il Rinascimento italiano coltivata durante la formazione all’Accademia di Baghdad, conclusa con il diploma nel 1972. «Ho iniziato a dipingere quando avevo circa sette anni. Mi piaceva molto, gli insegnanti mi incoraggiavano, dicevano che i dipinti erano belli, così sono andato all’Accademia per formarmi in modo serio».

Qui, nella capitale irachena, per una vita il maestro al-Kanun ha insegnato arte ai ragazzi delle scuole. Un lavoro molto amato, svolto fino alla pensione, giunta quando il Paese si guadagnava un posto al sole nella guerra globale al terrorismo, promossa da Bush figlio. Pochi anni dopo, nel 2006, Matti al-Kanun fuggiva con la famiglia da Baghdad, trovando rifugio in un quartiere periferico di Bartella, antico centro assiro dove si ritiene sia esistita una importante scuola liturgica nestoriana.

La relativa tranquillità del luogo, adagiato sulla piana di Ninive e lontano dall’escalation di violenze settarie di Baghdad, ha concesso all’artista le condizioni necessarie per dedicarsi alla pittura e all’arte. All’interno della nuova casa, acquistata a rate con una detrazione fissa dalla pensione, il maestro al-Kanun si è creato un piccolo atelier, posto al secondo piano della struttura, vicino alla porta metallica che conduce sull’ampio terrazzo piatto occupato dalle cisterne per l’acqua.

In città tutto è cambiato a fine 2013, quando i rapporti tra le diverse comunità erano ormai compromessi. Anni di violenze settarie diffuse su tutto il Paese, la diffidenza crescente e la paura sono stati all’origine di spaccature nette tra i gruppi che formavano la composita società irachena.

«Inizialmente vivevamo in pace con gli Shabak sciiti, loro conoscevano anche la nostra lingua, l’aramaico, ma in seguito sono arrivati diversi stranieri (arabi sunniti in fuga dal caos nel sud del Paese nda). Bartella è cresciuta e sono iniziate le tensioni, soprattutto tra i giovani dei diversi gruppi» spiega Elien, nuora di Matti al-Kanun e insegnante di lingua inglese in una scuola di Erbil.

La situazione è andata peggiorando di giorno in giorno, fino a costringere le varie famiglie a una sorta di isolamento all’interno dei rispettivi quartieri. «Ricordo una signora della nostra zona, che come ogni sera era andata a sedere fuori, all’ombra, assieme ad altre donne dei dintorni per prendere il fresco e conversare» continua l’insegnante «a un certo punto due ragazzi stranieri sono passati e davanti alle donne e hanno detto qualcosa tipo “guarda queste case, ancora poco tempo e saranno nostre”. Lei ci raccontò di averli sentiti e dopo poche settimane l’Isis arrivò». È questo, il ricordo di un sentito dire, che per Elien basta a spiegare il come i rapporti tra i vari gruppi della sua città si siano recisi. Allo stesso modo, secondo l’insegnante di inglese, è il riflesso di quanto accaduto nel resto del Paese.

Qualche settimana dopo la situazione è precipitata. Matti al-Kanun e i suoi familiari sono fuggiti il 6 agosto 2014, poche ore prima che Daesh facesse ingresso a Bartella. «Siamo stati tra gli ultimi ad andarcene» racconta l’artista, incontrato in più occasioni tra marzo 2017 e gennaio 2018. «Non siamo riusciti a portare con noi i dipinti in quanto erano grandi e non avevamo un’auto. Questo mi ha fatto soffrire a lungo, avevo perso parte del mio lavoro».

La famiglia Alkanun, al pari di centinaia di migliaia di iracheni, si è trovata a vivere in un campo, nel loro caso in una stanza in cartongesso al Nishtiman, centro di accoglienza allestito ai piani alti di un centro commerciale eretto sopra il mercato di Erbil. Qui Matti ha sofferto di depressione per la perdita delle sue opere, dei libri d’arte cui tanto teneva, per l’ennesimo esodo forzato all’interno del Paese che ama.

Trenta mesi dopo la fuga, nell’ottobre 2016, Bartella è stata liberata dal composito fronte schierato agli albori dell’operazione che ha portato alla caduta del califfato di Al Baghdadi. Malgrado le macerie e la forte militarizzazione, uno dei figli dell’artista è riuscito a tornare sul posto per verificare le condizioni dell’abitazione. Durante il breve sopralluogo si è capito subito che la casa era stata svaligiata, completamente svuotata di ogni cosa, dai mobili ai suppellettili, tutti riciclati all’interno dello Stato Islamico.

Diversa la sorte dei dipinti, trovati riversi al suolo al piano superiore, coperti da due dita di polvere. In tutto 35 opere, rimaste alla mercé dei miliziani che si sono limitati a rovistare tra le tele alla ricerca di oggetti preziosi o danaro nascosti. Tre opere invece hanno attirato l’attenzione degli occupanti: una “madonna con bambino”, un ritratto di “Gesù” e una “deposizione di Cristo”, poi fatti a pezzi, squarciati dai jihadisti con dei pugnali. Si è trattato di un gesto simbolico, manifestazione di quell’iconoclastia che in Medio Oriente ha caratterizzato il metodo dello Stato Islamico, dalle antichità di Palmira, in Siria, alle reliquie mesopotamiche del museo di Mosul.

Allo stesso modo, le opere di al-Kanun, seppur meno celebri, sono state incluse nella logica di distruzione dell’identità degli idolatri – nel caso cristiani siriaci – trattamento riservato a tutte le componenti non sunnite della società irachena. Distruggere i simboli dei nemici dell’Islam, è stato per Daesh uno strumento di comunicazione, un gesto inequivocabile volto a cancellare la memoria di chi c’era prima, in nome di un Islam originario da sostituire al passato, un sacrificio necessario per sancire il nuovo inizio.

Malgrado gli inni ad Allah e il riferimento al Corano, l’azione iconoclasta dei miliziani di Daesh sfugge a una logica religiosa ma va interpretata per la sua natura strettamente politica. A Mosul, a Palmira – o in precedenza per i Buddha di Bamiyan, bombardati dai Talebani in Afghanistan, l’11 marzo 2001 – i distruttori non fanno altro che documentare sé stessi, in un’orgia di selfie e video di cui poi curano la diffusione in tutto il mondo, come ha spiegato lo storico dell’arte Salvatore Settis in un recente intervento su “Iconoclastia e politica” all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

È attraverso la distruzione dei simboli, dunque, assieme all’eliminazione fisica del nemico, che i jihadisti di Al Baghdadi hanno cercato di legittimare il loro Stato Islamico e di imporre il proprio metodo di governo.

Allo stesso modo, dopo la caduta del Califfato, la ricostruzione delle immagini distrutte ha la stessa valenza politica, una manifestazione di resilienza condivisa da tutte le comunità, intenzionate a tornare alla vita in Iraq.

Una sorta di legge del taglione, valida anche per le tele di Matti al-Kanun, che l’artista ha voluto recuperare dalle macerie di Bartella prima di aggiustarle «per resistere alla violenza».

Ricucire e resistere, il ritorno alla vita in Iraq passa per l’arte

Era da poco iniziato l’assedio di Mosul Ovest quando il pittore siriaco Matti al-Kanun ha pensato di tornare a casa, a Bartella, liberata dopo trenta mesi di occupazione dell’Isis. Alcuni dei suoi dipinti erano rimasti in una stanza al momento della fuga, avvenuta il 6 agosto 2014. Trentacinque tele in tutto, tre delle quali, a tema cristiano, sono state trovate e squarciate dai jihadisti, infine abbandonate al suolo.

«Avevo lasciato le opere nella stanza in cui lavoravo» racconta l’artista «quelli di Daesh (l’Isis) hanno tagliato le tele in quanto è nella loro cultura. Sapevo che lo avrebbero fatto, perché conosco il loro modo di agire». Con queste premesse Matti al-Kanun decide di ricucire quegli squarci come forma di resilienza, lo vuole fare per la sua famiglia, per la comunità cui appartiene e per tutte le comunità irachene, ugualmente colpite dalla guerra e mai come ora divise.

«Intendo riparare i miei dipinti per dimostrare che si può resistere. Non sono un uomo politico, non sono nemmeno un soldato. L’arte è l’unico modo che ho per oppormi a tutto questo», affermava al-Kanun a marzo 2017, durante un’intervista a eastwest.eu nel suo alloggio al campo Nishtiman, a Erbil. Superare i checkpoint con un furgone carico di opere non è cosa facile. Tantomeno in tempi di guerra, quando il transito in arrivo e partenza per Bartella, sulla via per Mosul, è ancora lungo e laborioso.

Il momento adatto giunge ad agosto, neanche un mese dopo la fine dei bombardamenti a Mosul Ovest. Recuperato un pick-up da un conoscente, l’artista e il figlio Ramiz tornano nella città da cui erano fuggiti tre anni prima, e noi di eastwest.eu siamo con loro.

La città porta i segni dei bombardamenti. Non ha subito la devastazione di Mosul ma per centinaia di abitanti non c’è più un luogo dove stare. Matti e Ramiz hanno avuto fortuna, le granate più vicine sono cadute a qualche decina di metri di distanza. Il viale che conduce davanti all’abitazione è invaso dai detriti. Le buche sono in parte riempite di sabbia, e nelle crepe dell’asfalto le sterpaglie crescono senza controllo.

Entrare in casa da queste parti prevede una gestualità sconosciuta a chi non vive in una zona di guerra. A Bartella, prima di aprire il cancello conviene sbirciare dall’altra parte, nel caso ci sia una mina o qualche trappola esplosiva sfuggite alla bonifica. Così, prima di abbassare la maniglia metallica, Ramiz si solleva in punta di piedi e porta gli occhi oltre il bordo del portone, dall’altra parte, per accertarsi che tutto sia in ordine. Non si sa mai.

È venerdì mattina quando padre e figlio rientrano a casa loro, sebbene per un giorno appena. Non sono i soli. Nel centro abitato di Bartella arroventato dai 52 gradi di agosto, si vedono altre famiglie indaffarate a rimettere in sesto le proprie abitazioni. Tutti o quasi vanno e vengono per poche ore da Erbil, un po’ per riordinare, un po’ per saggiare l’aria in vista di un ritorno ormai inevitabile, malgrado il timore di nuove ondate di violenza.

L’insicurezza di profughi interni è dovuta all’impossibilità di conoscere cosa accadrà in Iraq nel dopo Isis. La disfatta territoriale dei jihadisti di al-Baghdadi, infatti, ha riacceso le complesse dinamiche derivanti dalla guerra per procura che contrappone Arabia Saudita e Iran, talora riassunta in un confronto tra sunniti e sciiti, che in realtà non ha natura religiosa bensì geopolitica.

Le elezioni previste per il 12 maggio potrebbero costituire una pietra angolare nella definizione di un nuovo assetto nel Paese, attualmente retto da una debole maggioranza sciita e da una minoranza sunnita sempre più isolata. Riyad vede nell’appoggio ad alcuni candidati politici iracheni l’occasione di recuperare la deriva regionale innescata nel 2003, all’indomani dell’invasione statunitense, con l’azzeramento del partito Baath a partire dal suo leader Saddam Hussein, e con la decostruzione dell’esercito.

Le votazioni di maggio potrebbero invece consolidare l’influenza iraniana in Iraq, magari proprio sostenendo alcuni candidati delle Forze di mobilitazione popolare (Pmu, le milizie sciite sostenute da Teheran, schierate nell’offensiva allo Stato Islamico e da poco riconosciute parte dell’esercito iracheno) che al pari di Hezbollah in Libano sembrano destinati a passare dalla militanza armata alla politica.

Fino a dopo lo spoglio – e probabilmente anche in seguito – per chi in Iraq ci vive non potranno esserci certezze sui nuovi equilibri di forza nel Paese. Condizione che influisce in modo netto anche nei villaggi e nelle città, dove, al timore di un ritorno al caos, si sommano le difficoltà di tutti i giorni, a partire dall’approvvigionamento di acqua e gas, cui si aggiunge la ricerca di un lavoro.

Tutti fattori determinanti nel convincere o meno i profughi iracheni a rientrare nelle loro case. A oggi, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), 8,7 milioni di persone hanno bisogno di sostegno per vivere, e dei sei milioni di sfollati nei quattro anni di guerra all’Isis, 2,6 milioni si trovano ancora nei campi. Per molti di loro, a partire dagli yazidi, non ci sono le condizioni per il ritorno. Città come Sinjar, centro della minoranza yazidi, o la stessa Mosul Ovest restano in macerie. Oltre alla ricostruzione però, il rientro è reso difficile dalle tensioni etniche alimentate dalla diffusa percezione di insicurezza.

Il problema è particolarmente sentito da chi, come Matti al-Kanun, in Iraq vuole tornare a vivere normalmente. Ecco che per lui il recupero e la riparazione delle opere deturpate dai jihadisti ha un valore simbolico. Significa opporsi alla brutalità della guerra, non solo a quella contro Daesh ma alle violenze che in 15 anni hanno causato centinaia di migliaia di vittime e fratture apparentemente insanabili.

Nell’interpretazione dell’artista le opere violate diventano una trasposizione della società irachena. Gli squarci dei pugnali sono gli effetti della guerra, mentre i brandelli delle tele raffigurano le diverse comunità del Paese. Ricomporre i dipinti serve a esorcizzare i conflitti, ma rappresenta anche la volontà di ripristinare delle relazioni stabili tra i vari gruppi, condizione necessaria per tornare a qualcosa di simile alla normalità in Iraq.

Il pensiero di al-Kanun non si riduce però alla speculazione di un “artista”, ma rispecchia le posizioni di molti altri profughi interni da noi incontrati, non importa se cristiani, yazidi o musulmani. Le loro posizioni sono le stesse di Elien, nuora del pittore siriaco: «La nostra speranza è che dopo il rientro a casa ci sia la possibilità di tornare a convivere e che non ci siano manovre alle nostre spalle. Vogliamo stare in pace, e se ci saranno le condizioni, credimi che la maggior parte delle persone tornerà indietro».

Al tardo pomeriggio di quel giorno di agosto, padre e figlio caricano le tele sul cassone di un furgone. Il ritorno a Erbil non è dei più semplici, la diffidenza dei soldati al checkpoint iracheno diventa un interrogatorio al controllo successivo, quello dei peshmerga curdi. In entrambi i casi si riesce comunque a passare, concludendo il trasporto sotto alla tettoia in lamiera annessa a una scuola per bambini di un campo profughi ad Ankawa, sobborgo a maggioranza cristiana di Erbil.

Qui il maestro al-Kanun porta a termine il suo lavoro. Stende su un tavolo i dipinti deturpati e con dell’acqua bagna gli squarci, in modo da ammorbidire i lembi rinsecchiti. Da una tela di cotone ritaglia poi alcune strisce a misura, le bagna e dopo averle cosparse di colla vinilica le fa aderire alla parte posteriore degli squarci. Una volta asciugato, il tessuto dei dipinti e quello delle pezze di cotone si rinsaldano, divenendo un tutt’uno, seppur preservando una linea bianca tra i lembi dello squarcio.

«Ricucire i tagli per me significa riunire le comunità irachene», spiega Matti al-Kanun. «Resistere e ricominciare è possibile, ma i segni della guerra devono rimanere visibili, a memoria di quanto è accaduto in Iraq». Memoria che al-Kanun vorrebbe far conoscere, magari proprio in Europa, dove da sempre sogna di poter esporre la sua arte e dove oggi, mentre pubblichiamo, il pittore siriaco sta esponendo le 35 opere recuperate, in una mostra allestita a Venezia.

Dall’Iraq a Venezia, con le Madonne salvate dalla furia dell’Isis

Venezia – Lo attendevano in molti a Venezia. Qualcuno desiderava dare un volto all’autore di quelle tele, squarciate dagli uomini dell’Isis che avevano occupato la sua città e da lui riparate, altri erano curiosi di ascoltare la sua esperienza. L’artista iracheno Matti al-Kanun alla fine è arrivato in Italia, nella città lagunare che ha voluto esporre parte delle sue opere. Una selezione di 15 dipinti (su 35) perduti nelle maglie del Califfato e poi ritrovati, al termine di una complessa operazione di recupero a Bartella, città a maggioranza siriaca posta 25 chilometri a est di Mosul.

Le prime impressioni di un viaggio non sono quelle definitive, ma forse ne svelano la sostanza, che nel caso di un artista cristiano siriaco a Venezia è stata subito chiara: «C’è troppa acqua». Questa la lapidaria – e ironica – sentenza di al-Kanun, interpellato al suo arrivo sull’Isola di San Servolo, al contempo alloggio e sede della mostra.

Colpa dell’acqua alta, giunta puntuale come le tasse – assieme alla neve – a rivestire con il suo manto lucido gli spazi aperti di piazza San Marco. Colpa forse dei vaporetti, da cui dipende la fruizione di una città tanto splendida quanto complessa nella sua peculiare logistica, lontana anni luce dalle aride distese di Bartella e della biblica Piana di Ninive.

Un paio di giorni dopo, smaltita la stanchezza del viaggio in aereo – il primo in 75 anni di vita – e presa confidenza con un mondo nuovo, Matti al-Kanun ha ritrattato con la schiettezza che lo contraddistingue, riconoscendo il fascino della città e apprezzando qualche sortita tra le calli, e la visita alla Basilica di San Marco. Inutile dire che il suo arrivo a Venezia ha destato profondo interesse. In molti sono giunti a incontrare l’artista, per comprendere la genesi di Back to Life in Iraq – questo il nome dell’esposizione – e il motivo della riparazione di quelle tele sfregiate, come forma di resilienza e rifiuto di una guerra capace di spezzare la comunità irachena, creando divisioni apparentemente insanabili.

«Avevo lasciato le opere nella stanza in cui lavoravo. Quelli di Daesh (l’Isis) hanno tagliato le tele in quanto è nella loro cultura. Sapevo che lo avrebbero fatto, perché conosco il loro modo di agire», testimoniava esattamente un anno fa al-Kanun, nella sua stanza in cartongesso ricavata nel centro di accoglienza Nishtiman, a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno. Fu in quel momento che l’artista espresse il suo doppio desiderio: portare in salvo le proprie opere in modo da poterle ricucire; magari un giorno riuscire a esporle in Europa, come sognato da sempre.

Alla fine c’è riuscito. Grazie a una lunga cordata di attori – troppi per poterli menzionare tutti – la sua esperienza è approdata a Venezia. La trasferta di al-Kanun diventa così un momento di confronto su una questione complessa. Il conflitto in Medio Oriente e l’allontanamento delle comunità irachene per effetto della guerra, semplificati dalla linearità del messaggio esposto in prima persona dall’artista, passeggiando tra le sue opere appese al muro, in un corpo a corpo appassionato, ingaggiato con chiunque avesse domande da porre, studenti in primis. «Ricucire i tagli per me significa riunire le comunità irachene. Resistere e ricominciare è possibile, ma i segni della guerra devono rimanere visibili, a memoria di quanto è accaduto in Iraq» è il sunto del suo intervento.

Concetto ribadito anche sulla terraferma, in via Torino a Mestre, pochi passi oltre il Ponte della Libertà, dove inizia quella che per i veneziani è già campagna. Qui, l’artista cristiano ha incontrato le studentesse della laurea magistrale in Scienze chimiche per la conservazione e il restauro di Ca’ Foscari. Un gruppo di future restauratrici coinvolte in prima persona nella riparazione delle opere deturpate. Nel corso del primo quadrimestre, infatti, da settembre a febbraio, hanno avuto l’opportunità di sostituirsi ad al-Kanun nel restauro di una delle tre opere, la Deposizione di Cristo. Al momento del ritrovamento, ad agosto 2017, il dipinto era danneggiato a tal punto da sembrare irrecuperabile, tanto da indurre l’artista a considerare l’idea di buttarlo. La tela era comunque stata trasferita in Italia, nei laboratori di Ca’ Foscari, dove ha avuto inizio la complessa analisi che ha preceduto l’intervento di messa in sicurezza dell’opera.

«Abbiamo prelevato dei micro campioni da tutti gli strati del dipinto per individuare i materiali usati dall’artista» spiegano le studentesse Mara Bortolin, Giorgia Cappellato, Martina Donà, Margherita Longoni e Ilaria Valcasar che hanno lavorato al restauro, sotto la guida delle docenti Elisabetta Zendri e Alessandra Carrieri.

«Ci siamo trovate di fronte materiali diversi, noi conoscevamo soprattutto tecniche europee, quindi confrontarsi con una preparazione artistica differente poteva essere causa di problemi per via della poca dimestichezza. In seguito abbiamo individuato un sistema pulente per rimuovere le tracce di umidità e di muffe, poi abbiamo messo in sicurezza gli squarci. Seguendo la scelta dell’artista abbiamo lasciato che restassero visibili, quindi, con delle fascette di colla poliammide abbiamo ricucito pezzettino per pezzettino»

Il lavoro svolto dalle studentesse – esposto a San Servolo con il resto della collezione e alcune foto – non si è limitato al solo aspetto tecnico, ma è stata anche un’occasione unica di conoscere da vicino, di toccare letteralmente con mano un conflitto lontano e difficile da comprendere. Del resto il ruolo dell’Università non è anche preparare gli studenti a confrontarsi con la complessità del mondo?

A sentire le impressioni delle dirette interessate il messaggio di al-Kanun è stato colto: «La situazione del luogo di provenienza dell’opera determina l’importanza del nostro lavoro e valorizza l’opportunità che ci è stata data» continuano le studentesse.

«Da fuori tutti sappiamo che ci sono conflitti in corso ma non sempre riusciamo a renderci conto del fatto che ci siano tentativi di eliminazione di altre persone e comunità, in senso fisico ma anche nei simboli che le rappresentano, come ad esempio le opere d’arte. Con questo lavoro abbiamo potuto portare un messaggio, far parlare di problemi di cui tutti conosco l’esistenza ma che talvolta sono sentiti alla lontana. Sicuramente un intervento del genere ti apre gli occhi. Per noi lavorare sull’opera ha significato anche questo».

Il migliore dei risultati auspicati da Matti al-Kanun, da poco rientrato a Bartella dove, come promesso prima di ripartire, tornerà subito a dipingere e a usare l’arte per raccontare il suo Iraq e resistere alla guerra, in ogni sua forma.